«Ma dove diavolo sta questo Vittorio?», dicono abbia esclamato il generale Diaz cercando sulla carta la cittadina alla vigilia dell’ultima offensiva italiana. Non gli si può dare troppo torto. Vittorio non era certo una meta celeberrima. L’unico motivo per cui il Comando Supremo italiano la scelse come obiettivo strategico dell’offensiva finale, il 24 ottobre 1918, fu che rappresentava il punto nevralgico dello schieramento austro-ungarico: conquistarla voleva dire spezzare in due le armate imperiali. Più tardi, si dirà che, da buon napoletano superstizioso, Diaz avesse scorto nel nome “Vittorio” un presagio beneaugurante, ma si tratta di una malizia a posteriori.
Sorta nel 1866 dall’unione dei due borghi di Ceneda Serravalle, e chiamata Vittorio in onore del re Vittorio Emanuele II, era una tranquilla cittadina di poco più di ventimila abitanti posta alle pendici delle Prealpi trevigiane. Molti ufficiali italiani la conoscevano perché nella pianura circostante si erano svolte per anni le grandi manovre della cavalleria, e i rampolli nobili dei reggimenti più blasonati dell’esercito amavano ritrovarsi nelle sue osterie la sera per brindare, divertirsi e cercare un po’ di svago con le fanciulle locali. Ma a parte questo, Vittorio non aveva mai rivestito alcun interesse militare. Anche dopo l’inizio della Grande Guerra la sua vita era continuata pressoché identica: non era un centro logistico né la sede di una guarnigione importante, e gli aerei austriaci la lasciavano perdere. Alla fine del 1917, però, la situazione cambiò radicalmente. Vittorio subì l’invasione austro-tedesca. Anzi, divenne uno dei centri abitati più importanti della zona occupata a ridosso del Piave. La sua popolazione fu in parte sfollata, in parte dovette subire un’occupazione brutale, fatta di rapine e maltrattamenti da parte delle truppe austriache e tedesche. Dei quasi 5mila morti civili nel corso del 1918, almeno 2mila furono dovuti a fame, mancate cure o direttamente alle violenze subite. Non stupisce che, quando le prime truppe italiane la raggiunsero, la mattina del 30 ottobre 1918, la popolazione rimasta sia insorta furibonda contro i pochi austriaci rimasti. Ricorda il poeta Tommaso Marinetti che i soldati italiani dovettero trattenere gli abitanti dal linciare sommariamente gli impauriti rappresentanti di quello che era stato l’esercito imperiale. «Il padre maltrattato e schiaffeggiato. La sorella incinta buttata giù dal letto per rubarne le lenzuola. Il vecchio beffeggiato. La vacca rubata. Il colonnello austriaco che baciò per forza mia sorella! Bisognava cedere e subire quel corpo schifoso perché la mamma non morisse di fame. Vendicare un anno di soprusi, di saccheggi, prepotenze e crudeltà…». Vittorio divenne così, rapidamente e per tutti gli italiani, il luogo della memoria della Vittoria per definizione, quella che aveva vendicato l’umiliazione di Caporetto, e soprattutto che aveva cancellato il mito, duro a morire, che gli italiani non sapessero battersi. Eppure, fu proprio la giunta municipale della cittadina a lottare per non essere associata alla guerra. Guidata da una giunta socialista e pacifista, Vittorio mutò il suo nome in Vittorio Veneto solo nel 1923, e unicamente perché il nuovo governo fascista glielo impose. Un simbolo di gloria per la nuova Italia, obtorto collo.